Sono agita, capita sempre più spesso quando, seduta davanti a uno specchio illuminato da neon abbaglianti, si riflettono bene i solchi che il mio viso porta con sé. Gli occhiali enormi, che poggiano sul naso, non nascondono la paura che ogni cellula della mia pelle si porta dentro. Comincio a muovere la bocca in maniera esagerata per allentare la tensione alla mandibola, come faccio sempre prima di salire sul palco, canticchio “one, two, three, drink” e bevo un sorso di whiskey. Infilo le scarpe nere, mi fisso, neanche non sapessi cosa sto vedendo. Gli occhi immobili a scartavetrare poco alla volta l’immagine riflessa, finché smetto di esistere, opaca e volgare sulla lastra color argento. Scendo dal tacco dodici e le dita dei piedi sembrano tornare a vivere. Un minuto. Starnutisco e serro le palpebre così forte, che il mascara, ancora bagnato, lascia la sua ombra. “One, two, three, drink” e butto giù ancora. Ci siamo. Esco, e so che non tornerò più quella di prima. Ho dimenticato le scarpe, buttate lì in disordine come fossero le martiri di una battaglia. A piedi nudi attraverso un corridoio d’erba umido e caldo, faccio un respiro profondo e mi chiedo se l’amore è questo: profumo di datteri e fine estate.
Che strana sensazione, è come se fossi stata sotto la pioggia per giorni. Stanca e rassegnata. Il contrabbasso comincia a far vibrare le sue corde con quel suono profondo e rassicurante. Subito dopo la tromba, acerba e scontrosa. Mi avvicino al microfono, è come se lo accarezzassi, è lui che sorreggere la mia paura, che mitiga la mia rabbia concentrata.
Sedie addobbate a festa su cui poggiano menti curiose piene di aspettative e i miei movimenti nervosi che lentamente si sciolgono. Sono soggiogata, controllata e dominata dal colore della mia musica. Sono pronta, sganciata da ciò che mi sta intorno, innestata di nuove possibilità.
La mia attenzione è sconvolta da una luce abbagliante che esplode da una delle finestre davanti a me. La musica continua la sua corsa mentre io scendo i tre gradini e rincorro una sorta di miracolo. Trascino i piedi sull’erba tra gli sguardi increduli delle persone che da me desiderano altro. Imbarazzati, seguono l’allontanarmi dal ruolo che ricopro. Salgo delle scale di marmo gelido, ora sento il freddo risalirmi le gambe, in questa sera di fine settembre. Sono apatica, quasi come fossi rallentata e sovraccaricata di sentimenti indecifrabili. Le scale terminano su quattro porte chiuse. Sto cercando qualcosa, ma non capisco nulla. Cammino avanti e indietro, nella mia testa una giungla di parole, sono serrata in un bunker di confusione. Non so cosa fare, eppure sento di dover trovare qualcuno, qualcuno che mentre mi gocciolerà l’anima saprà sorreggere il mio malumore.
Timida e discreta apro la prima porta. Dentro seduti una sull’altro, su un divano vittoriano, ci sono due adolescenti che sembrano mangiarsi a vicenda. Le pareti sono rosso scarlatto, loro due indossano abiti neri, lei stretta in un vestito, lui in dei jeans strappati. Hanno sulle orecchie delle appariscenti cuffie azzurre, isolati dal mondo. Distolgono la loro attenzione dal bacio travolgente in cui stavano vivendo e rivolgono la loro attenzione a me. Percepisco nel loro sguardo una sorta di pena nei miei confronti. Lei si solleva le cuffie e mi dice: «Le abitudini possono essere belle, brutte, disordinate, rumorose, gentili, strane, ossessive, ricorrenti, saltuarie. Ci sono abitudini che ti rendono umano, abitudini che ti crescono dentro. Abitudini che si amano, abitudini che ti ammazzano».
Risolleva le cuffie sulla testa e torna a baciare il suo ragazzo. Mi allontano dalla scena come se fossi trascinata indietro da una forza istintiva.
Sono timorosa nell’aprire la seconda porta, scricchiola la serratura mentre intorno è calato un silenzio destabilizzante.
Due eleganti anziani ballano un walzer che io non sento, la stanza color oro ha solo un orologio enorme dietro le loro teste che ondeggiano sorridenti. Sono raffinati nei loro abiti da sera bianco avorio, lei avvolta in un vaporoso vestito, come fosse una sposa. S’inseguono le loro gambe sicure e ancora agili. All’improvviso bloccano la loro danza, come si fossero accorti solo ora della mia presenza, si fissano e lei si rivolge a me con un sorriso compassionevole sulle labbra: «Ci sono i battiti del cuore, delle mani, delle ciglia, dei piedi. Battiti ritmati, veloci, lunghi e lenti. Battiti fuori tempo, battiti onesti, violenti, falsi, agitati, rilassati, all’unisono, distinti. Battiti vigliacchi, d’amore, utili o inutili. Battiti dolci, frenetici ansiosi o calmi. Tutto inizia e tutto finisce con un battito, l’importante è sceglierne l’intensità».
Si riprendono l’abbraccio che avevano spezzato, come se io non esistessi più e continuano la loro danza. Il cuore adesso ha deciso di scoppiarmi nel petto. Nella terza porta mi ci butto dentro, senza pensarci, curiosa e sconvolta, mentre faccio ordine nelle loro parole, pronta a urlare in faccia al prossimo. Una stanza completamente color rosa pastello e una bambina con degli occhiali grandi quanto i miei. Indossa un vestito turchese e tiene in mano un palloncino giallo. Comincia a ridere quasi fino a piegarsi su se stessa. Ride mentre mi dice: «Non tutti gli abbracci vanno a buon fine, alcuni nascono storti e durano per sempre».
Chiudo la porta e la lascio mentre saltella su una gamba sola, canticchiando una canzone per bambini. Questa volta corro verso l’ultima porta a destra. Ci sbatto contro, come se sapessi già che non si sarebbe aperta. Rimbalzo dopo averla colpita violentemente con la spalla. Faccio due passi indietro e muta si apre da sola. Il mio respiro è così veloce che mi sento mancare. Urto con il piede la porta che mi separa da un qualcosa che sento necessario. Le pareti sono grigio piombo, un uomo di spalle guarda fuori dalla finestra un tramonto su un mare che non conosco. Si volta sorridendomi, si avvicina ed io indietreggio spaventata, ma i suoi occhi si chiudono a fessura in un sorriso rassicurante. Mi prende le mani se le porta alla bocca e le bacia. Sussurra: «Chissà quanto rumore hai dentro. Io mi fermo. E se poi ti fermi anche tu, possiamo ricominciare insieme la stessa canzone».
La tromba finisce il suo stridulo assolo ed io sono in piedi sul palco, inchiodata al pavimento, inghiottita da un subbuglio di commozione. Applaudono con un vigore ingiustificato. Guardo su e nessuna luce abbaglia le mie pupille, nessun uomo riflesso sul vetro. È tutto buio poco sopra la mia testa. Le bacchette della batteria battono quattro quarti per dare il via al secondo pezzo, do voce al mio corpo chiedendomi dove andrò adesso.
Pubblicato per la prima volta sulla rivista letteraria L’Irrequieto