Alla fine sto così, in ginocchio, chiusa dentro a un metro quadro e l’unica cosa a cui penso è che mi sto pisciando sui piedi. Capita quando devi sollevarti la gonna, piegare le gambe e urinare in una turca. È inevitabile, i miei sandali rossi nuovi saranno schizzati da quell’uscire violento. Sono in una posizione indifesa perché sto scaricando tutto l’alcol che ho avuto il coraggio di buttare giù. Il mio sguardo crolla, insieme al mio equilibrio, sullo scarico della doccia posizionato davanti a me. Lo fisso e ci guardo dentro neanche potessi leggerci il mondo. Improvvisamente le pareti cominciano a tremare, devo sorreggermi per non cadere, la porta non si apre, non capisco cosa stia succedendo. Mi risveglio all’interno di una stanza grigia, è un cubo color fumo di Londra, una sedia bianca al centro e una sola finestra. Mi affretto ad appoggiarci il naso, tutto intorno ci sono desolate colline di un verde morto. Con la mano accarezzo il muro e percorro il perimetro della camera. È liscio, è una bella sensazione quella che si espande sul mio palmo, ma allo stesso tempo mi si sistema un peso sullo sterno e devo cercare respiri profondi. Cosa ci faccio qui? Non ci sono porte e la finestra è solo un vetro senza maniglie. Non c’è via d’uscita. È sicuramente uno scherzo, sarò finita in una specie di Truman show e qualcuno mi starà osservando.
Passano le ore e non sono più calma, batto i pugni su tutte le pareti gridando aiuto. Anche se mi sgolo non riesco a urlare così forte come vorrei, la mia voce esce flebile e rimbalza sulle pareti. Nonostante il suono che emetto sia debole mi ritorna con un eco assordante e devo proteggermi le orecchie dal mio stesso sbraitare “aiuto”. Mi manca l’aria e fuori sta diventando buio. Non c’è anima viva, chilometri di nulla ed io sigillata a forza. Cosa vuole essere questa cosa? Una metafora? Una lezione di vita? Una lezione sulla mia vita? Perché?
Mi siedo sulla sedia, non resisto molto, non so come mettermi, è scomoda e decido di accucciarmi in un angolo. Finalmente accade qualcosa, spacca il buio una luce accecante che entra dalla finestra e sono costretta a coprirmi gli occhi. La stanza grigia per un attimo diventa color oro. Mi affaccio e vedo me e lui seduti al tavolo di un ristorante cinese. Lo capisco perché ci sono delle tovagliette di bambù e le cameriere indossano tutte lo Cheongsam. Intorno a noi ci sono una coppia di donne che si imboccano a vicenda ridendo, un uomo calvo in una camicia azzurra che parla gesticolando a un ragazzo che indossa una maglietta rossa con un numero enorme stampato, le stesse che andavano di moda negli anni novanta. Di fianco a noi due genitori con di fronte i loro figli adolescenti che non staccano gli occhi dai cellulari nemmeno per il riso alla cantonese. Poggio il mio telefono e ingurgito udon salati. Mi torna in mente quella sera, dopo non ci parlammo per giorni, ma non ricordo perché, so solo che avrei preferito cenare a casa. Phil Collins canta “Another day in Paradise” e mentre la musica sfuma di colpo la scena diventa buia lasciando il posto a un nero spaventoso. Sale a strozzarmi il senso di colpa per quella serata andata a puttane. Sento gli occhi cedere sotto il peso di un sonno stremante. Un forte rumore mi fa rinsavire, le pareti si crepano come se i mattoni stessero esplodendo. Non so dove rifugiarmi, sta per crollarmi tutto in testa. Chiudo forte gli occhi e forse prego. Sono in bilico nel bagno di quel ristorante cinese. Prendo un pezzo di carta e asciugo i sandali rossi, tiro lo sciacquone e mi sistemo la gonna. Esco da quel cesso puzzolente, mi lavo le mani e torno al tavolo dove lui mi aspetta. Mi guardo intorno e rivedo la stessa scena che poco prima devo essermi sognata. “Che strano” penso.
…Alla fine sto così, in ginocchio chiusa dentro a un metro quadro e l’unica cosa a cui penso è che mi sto pisciando sui piedi… No, aspetta… di nuovo… scarico, pareti che tremano, stanza grigia, urla, pugni, disperazione, sedia bianca, luce accecante, la scena di noi al ristorante. C’è qualcosa che non funziona. Eppure oggi non ho bevuto, o forse sì? Un loop straziante. Perché quella sera? Perché sono intrappolata in un ripetersi eterno? Dove sono tutti? Realizzo che sono sola, chiusa di nuovo nella stanza grigia.
So a memoria le parole di “Another day in Paradise”, è un incubo. Di nuovo buio, le pareti si spaccano e sono io al ristorante, stessa scena, tutto uguale.
– Liberatemi vi prego! – urlo ma non mi escono le parole. Tra le mani tengo il telefono con uno schermo nero. Di nuovo in bagno, le pareti, lo scarico e nuovamente sbalzata nella stanza grigia. Mi accuccio nell’angolo, pronta per quel rivivere perpetuo e straziante che mi farà impazzire. Come ho vissuto la mia vita per meritarmi questo?
“Oh think twice, it’s another day for you and me in paradise Oh think twice, ‘cause it’s just another day for you, You and me in paradise, think about it”.
Pubblicato la prima volta nella rivista letteraria Reader for Blind
https://www.readerforblind.com/single-post/2017/11/29/Another-day-in-Paradise