Quel lunedì mattina era uscita presto. Alle sette. L’acquirente sarebbe arrivato alle otto e l’appuntamento era al casello dell’autostrada. Ero contento, finalmente l’avremmo venduta. In due ore sarebbe tutto finito con qualche euro in più e una automobile in meno. Mi riappisolai di nuovo e mi risvegliai che erano le undici e lei ancora non era tornata. Preparai la tavola e misi a far bollire l’acqua. Era già l’una.
«Dov’é la mamma?» chiese mio figlio.
«Al PRA, a vendere la macchina», risposi.
«Cos’é il PRA?»
Prima risposta utile e sincera “Il PRA è un casino”, pensai. Ma ancora stavo rievocando il sogno che avevo fatto e così risposi: «È il posto dove il detective Bud White telefona per informazioni».
In falsetto, dissi: «Detective Bud White, polizia di Los Angeles. Una Mercury del ’49 targata DG114. Voglio sapere il nome del proprietario e l’indirizzo».
Feci la voce femminile della centralinista: «Subito, detective».
«Capito?» gli dissi, sorridendo. Mio figlio mi guardò come fossi un marziano.
Le due, eccola. Entra in cucina e lancia la borsa sulla credenza. La guardo curioso.
«Zitto!» dice, puntandomi il dito in faccia. Abbasso lo sguardo. Quando fa così è meglio obbedire.
«Stronzi! Ladri! Scansafatiche! Figli di puttana! Puttana bionda!»
«Ma cosa è successo?» oso chiedere.
L’indirizzo era West Hollywood 142, il detective White vi si recò di corsa. Era una palazzina a due piani. Controllò le cassette delle lettere, il nome corrispondeva, era l’unica donna, interno quattro.
«Polizia! Aprite!» gridò, impugnando la 38. Stava per sfondare la porta con un calcio quando si aprì solo una fessura, fermata dalla catenella.
«Detective White, omicidi» disse mostrando la patacca. La porta si aprì del tutto. Una bionda esplosiva dai lampeggianti occhioni azzurri. Statuaria, fasciata in un baby-doll rosso da cui prorompevano le sinuose curve del seno e il profondo solco fra gli esuberanti, candidi promontori.
Mia moglie mi fissa, truce. Come se fosse stata colpa mia. Poi inizia a parlare.
«Alle nove c’era già una fila lunga come la muraglia cinese. Un caldo infernale, senza aria condizionata. Alle undici stiamo finalmente di fronte allo sportello e quella stronza se ne va. Venti minuti. Torna, lentamente, e finalmente si risiede. Bionda occhi azzurri. Le tette grosse stanno poggiate sul banco. Cazzo, ma questa non suda, penso. No, perché dalla fessura dello sportello esce una arietta frizzante. La stronza gode di aria condizionata! Le allungo i documenti, infilandoli nel buco. Li guarda. “Chi è l’acquirente?”, chiede. “Sono io”, risponde il ragazzo che me la vuole comprare. “Lei ha diciotto anni?”, fa la stronza. “Ventitré”, risponde lui. Lei gli fa un gran sorriso e si rizza in su gonfiando i pettorali. “Portati bene!” dice e gli strizza l’occhio».
«Green? Samantha Green?» chiese Bud, riponendo la pistola.
«Sììì», fece lei, meravigliata, «posso esserle utile, detective?»
«Lei lavora alla motorizzazione?»
«Sììì», rispose la bionda ancor più meravigliata per la sagace intuizione del detective.
«E poi?» chiedo a mia moglie.
«E poi si alza e se ne va, ’sta stronza. Altri venti minuti. Torna con la faccia scura. “Manca la copia della patente”, dice. Il giovane tira fuori la patente e gliela dà. Le chiedo “scusi, ma cosa c’entra la patente? Io gli vendo la macchina. Che la voglia guidare o no sono ca… problemi suoi”, dico io, educatamente. La stronza manco mi degna di uno sguardo, sorride al giovanotto e dice: “Oggi hai vinto il primo premio. La fotocopia te la faccio io”, e ancora gli ostenta il davanzale, quella stronza!»
“Lei è in arresto!”, pensò Bud White, invece disse: «Lei ha vinto il primo premio!»
La bionda, con un sorriso smagliante e le braccia aperte, si alzò e, con piccoli passettini da geisha, si avvinghiò al suo collo e lo baciò.
«Lo sapevo! Lo sapevo!» disse la bionda, «che cosa ho vinto?» Bud le prese la mano e si diresse verso la camera da letto.
La bionda rideva e, con voce garrula, ripeteva: «Lo sapevo! Lo sapevo, ho vinto il primo premio!»
«E poi?»
«E poi è tornata».
La guardo con curiosità per conoscere il seguito. Ma lei tace.
«Allora?» chiedo, «l’hai venduta?»
«Sì, sì ma le ho preso il nome! Ce l’aveva stampato sul cartellino. Me lo sono anche scritto perché è un nome straniero».
Rovista nella borsetta e ne estrae un bigliettino.
«Ecco! Si chiama Samantha, Samantha Green. Io la denuncio, quella puttana!»