Era chiuso. Solo un foglietto, con su scritto ‘Dopo le 11’, animava il vetro della porta. Era scritto
con un pennarello blu e una calligrafia incerta e tremolante. Le lettere e il numero stavano un poco
inclinate, in un corsivo antico, come scrivono le persone anziane. Scocciata, mi avviai zoppicando
per la via ma già, dopo pochi passi, mi sentivo ridicola per quella mia camminata sbilenca, parevo
una ruota quadrata che sobbalzava su e giù per una discesa. Le tolsi, le scarpe e affrettai i passi. Più
avanti, all’angolo, c’era un bar dove avrei potuto sedermi e finalmente arrivai al tavolino e
soprattutto alla sedia del bar. Maledette grate, trappole dove giusto un tacco di scarpa si può infilare
e staccarsi. Guardai il mio piede e dalla borsetta tirai fuori la scarpa, che ormai sembrava una
pantofola, e il tacco che avevo recuperato, strappandolo alla maledetta griglia di ferro che lo
serrava. Tentai anche di riunirli, inutilmente. Avvilita, ripensai al negozio chiuso del calzolaio e a
quel biglietto. Probabilmente l’aveva scritto lui. Il vecchio Gino era una vita che stava lì, in via
Aporti ad aggiustare e lucidare scarpe. Perché non scrivere chiaro ‘Apro dopo le 11’, invece solo
quel ‘Dopo le 11’ che pareva non dire. Dopo che? 11 e cinque? 11 e trenta? Dopo… e poi quel
numero 11, due asticelle uguali, tremolanti, sembrava stessero per cadere. Due numeri primi
affiancati e allora perché non scrivere 22 o 33, gli anni di Cristo quando è morto? Mah, sarò matta.
Sì, una matta senza tacco. «Un caffè», ho risposto al cameriere che mi aveva distratto con quella
domanda: «Desidera?». Non desideravo un caffè ma, in certe occasioni, bisogna rispondere a tono.
Io desideravo un’altra vita. Ancora con questa storia? Trentatré anni, come quelli di Cristo, quando
è morto, ma potrebbero essere anche quarantaquattro, come i gatti o 11 ma dopo… fuori di testa,
sarà il caldo. Segretaria di studi medici, di avvocati, di magazzini e altro. Nubile, single, mora, uno
e settantatré. Ma soprattutto sola. Fidanzati alcuni, da dimenticare e… senza una scarpa, ora. «Ciao
Marina», mi ha detto con voce incerta. Al momento non l’ho riconosciuto e l’ho fissato. Elegante,
con la giacca blu e i capelli chiari come gli occhi. «Giorgio… », ha detto e io ho sorriso, ancora non
ricordavo. Cinque anni erano passati come un vento e quel Giorgio era stata una nuvoletta volata
via nei ricordi. Era stato a una festa che me l’avevano presentato, più visto. «Ciao», gli ho risposto,
allargando il sorriso. «Che fai qui?», ha chiesto. «Scarpa rotta», e gli ho mostrato il piede nudo. Si
sedette sulla sedia accanto e mi prese dalla mano il tacco. «Calzolaio», disse. «Dopo le 11»,
risposi. «Se vuoi ti accompagno, ho la macchina». Stavo per dire: ‘No grazie, ė qui vicino’. Invece
sorrisi e con un balzo lui era già per via. Prima il rumore scoppiettante, poi la cinquecento degli
anni ‘80 con lui dentro che mi faceva cenno di salire. Era ormai fatta, lasciai due euro sul tavolino,
raccolsi le scarpe ed entrai nel buco. «È l’Abarth», disse, quasi a scusarsi. «Dove andiamo?»,
chiese. «Ormai è tardi, se non ti spiace portami a casa che mi cambio le scarpe, sto in via
Acquedotti, vicino all’ospedale vecchio». Teneva le marce alte per far meno rumore, ma
scoppiettava come un vulcano e arrivammo sani e salvi. «Ti aspetto? », chiese. «No, grazie», e avrei
voluto aggiungere: ‘per oggi, basta così’. Ma lui insisteva. Ci scambiammo il numero di cellulare.
Infine disse: «Allora ti invito a cena, stasera». Stremata e senza avvenire ho detto di sì e lui: «Alle
otto, ti faccio uno squillo». Non ce ne sarebbe stato bisogno, arrivò con un fragore infernale e io mi
affacciai alla finestra gridando: «Arrivo!». «Ciao», disse sorridendo. «Ciao, risposi sorridendo», e
poi zitti fino al ristorante che stava sul lungomare. Lui era vestito ancora con la giacca blu ma aveva
messo un farfallino e io con la solita vestaglietta da sera coi fiori rossi e i tacchi alti, ma stavo
attenta. ‘Il Gabbiano’, così si chiamava il ristorante e lui era davvero un gabbiano. Ogni tanto
svolazzava fra i tavoli a cinguettare e non permetteva mai ai camerieri di servirmi, fu sempre lui a
farlo. Era il capo, il proprietario. Scoppiettando, mi riaccompagnò a casa e mi baciò e anche io lo
baciai, con passione. Ero felice. Il giorno dopo era domenica e Giorgio sarebbe passato dopo le 11
per andare insieme al mare. Stavo uscendo dal portone quando la Tina, la portinaia, mi
salutò: «Buongiorno signorina». «Buongiorno, Tina», risposi. «Lo sa?», disse. «No, che
cosa?». «Gino, il ciabattino, è morto. Lo conosceva, vero?». Rimasi impassibile. «Quando?». «Ieri,
dopo le 11», rispose. Con fragore, Giorgio era arrivato. «Perché piangi?», mi chiese.