Un bambino imbacuccato nella giacca mi si avvicina mentre sto aspettando il tram; ha il passo incerto e la mano tesa verso di me, tra le dita stringe una pallina di carta assorbente.
“Tieni”, mi dice.
“Che cos’è?”, gli chiedo.
“Un cuore”, mi risponde.
“Un cuore?”
“Di caramella!”
Sorrido in silenzio mentre lo guardo vacillare sulle gambe ancora instabili. Sposta lo sguardo da me al suo pacchetto di carta un paio di volte, con la bocca semiaperta in un’espressione di stupore. La mamma lo tiene per la mano, dolcemente lo tira verso di sé per sbloccarlo dall’impasse in cui è caduto, dal triangolo tra me, il suo pacchetto ed i suoi occhi sgranati.
“Andiamo.”
“Vai”, gli dico.
Si incammina malvolentieri continuando a guardarmi; tiene la testa rivolta all’indietro ed il braccio teso verso di me.
“E mangialo il cuore, mi raccomando!” gli urlo quando è già distante. “Il cuore di caramella. La caramella” aggiungo a voce più bassa ridendo di me stessa.
Ma a volte capita di mangiarselo, il cuore. Per rabbia, dolore, amore, passione.
“Mi sono mangiato il cuore.” Si dice? “Mi sono mangiato il cuore in un pomeriggio ventoso di fine inverno, l’aria era già profumata ma la primavera non era ancora arrivata.”
“Quello è il posto in cui mi sono mangiato il cuore. E quello è il posto in cui invece il cuore l’ho vomitato.”
Seduta in treno abbassai lo sguardo sulle mie mani, il mio sguardo si perse sullo sfondo: sul pavimento c’erano delle caramelle gommose, e soprattutto c’era una caramella rossa, a forma di cuore, ricoperta di zucchero.
Un cuore di gelatina leggermente sformato, malandato, con i ventricoli storti e gli atri sproporzionati, ma era lo stesso un cuore, e navigava sul pavimento azzurro e lercio del treno.
Era un cuore, malandato, rosicchiato, deforme; avrebbe continuato a battere, ancora, nonostante tutto.