«Non ce la faccio. Non ce la faccio a guardare quella foto, eppure continuo a farlo. Sto male.» mi dice con gli occhi verdi annebbiati dalle lacrime.
Io resto in silenzio, abbasso lo sguardo sul bicchiere d’acqua. Lei stringe tra i palmi delle mani una tazza di cappuccino; ci ha versato dentro una bustina intera di zucchero e l’ha bevuto quando era ancora bollente. Non so esattamente cosa dire, anche se so che è esattamente così che vanno le cose. So esattamente perché vedere quella foto la fa stare così male, ma a parole non riesco a spiegarlo. Sospiro.
«Stanno condividendo qualcosa, e tu non ne fai parte.»
«Li vedo lì, sorridenti, uno accanto all’altro, su un aereo, pronti per partire, pronti per un viaggio insieme. Mi immagino le risate, le chiacchiere, le ore di volo trascorse a chiacchierare, o semplicemente a sonnecchiare, ad ascoltare la musica scambiandosi le cuffie. Non ce la faccio, non ce la faccio.»
Ha il mascara sbavato sopra alle palpebre, la riga di matita nera della rima inferiore le disegna due ombre scure sotto agli occhi. La foto incriminata è lì, tra di noi, sullo schermo illuminato del suo cellulare appoggiato in mezzo al tavolino. Un’immagine in pixel, immobile, fredda, lontana, eppure così dolorosa; non è niente di che, due volti sorridenti, nulla di più. Tutto il resto lo costruiamo noi, con la nostra immaginazione, sulla base dei nostri ricordi. Lei piange perché riesce ad andare oltre ai pixel dello schermo, oltre al collegamento internet, oltre alla distanza che la separa da loro due. Piange perché si ricorda ancora esattamente il suono della sua risata. Riconosce quella felpa, quel sorriso che ha visto ogni giorno per anni, e che ha imparato ad amare così tanto. Piange perché riesce ad immaginarsi perfettamente il tono della sua voce, il modo di inclinare la testa, il modo di sedersi e di muovere le mani mentre parla. Solo che le parole che dirà non saranno rivolte a lei, ma ad un’altra ragazza. Non c’è lei seduta al suo fianco. C’è un’altra.
«Come faccio? Come posso fare?»
Con una lunga sorsata finisce il cappuccino e appoggia la tazza sul piattino. Si pulisce le labbra con un tovagliolino da bar, uno di quei tovagliolini inutili che non asciugano e che si strappano solo a guardarli. Lo stringe e lo stritola tra le mani per il nervoso. Non è arrabbiata, non ancora. Soffre, e basta.
«So esattamente come ti senti.» dico. Serve a qualcosa, dirlo? Cos’altro potrei dire? Non c’è niente da dire in questi casi, è tutto inutile, è tutto superfluo. Esiste solo quell’immagine stampata nella mente, dietro alle palpebre, sulla cornea degli occhi, che brucia da morire. È una sigaretta spenta sulla pelle dell’avambraccio. Non c’è sollievo, almeno non per ora. Col tempo passerà, vorrei dirle, perché è vero, ma preferisco rimanere in silenzio e lasciare che sia lei a parlare.
«E’ quel sorriso. Quel sorriso.»
«Sono i dettagli, le piccole cose.»
«Fanno male, malissimo. Fa male. Non ci sono io accanto a lui, capisci? C’è un’altra. Un’altra. Bacerà lei, non me. Guarderà lei, non me. Camminerà per le città di Madrid con lei, non con me. Mangerà, riderà, ballerà con lei, non con me. Perché doveva capitare proprio a me? Perché?»
Esiste una risposta a questa domanda? No. Siamo così facili da sostituire. Crediamo di essere speciali, e invece non lo siamo. Ci costruiamo, costruiamo un nostro Io, ci condividiamo con un’altra persona, e quando quella persona se ne va tutto crolla. Il centro non regge più.
Prendo il cellulare e lo spengo. Lo schermo diventa nero, le due facce sorridenti svaniscono in una frazione di secondo.
«Non guardarla più. Non serve a nulla. Un giorno non ci penserai più.»
«Certo, come no.» mi dice con un sorriso sarcastico.
«Un giorno ti dimenticherai di lui, esattamente come lui si è dimenticato di te. Un giorno non ci penserai più, esattamente come lui non pensa più a te.» dico, anche se non ci credo veramente. Perché forse la verità è che in ogni relazione c’è sempre uno che ama più dell’altro.