È degli ultimi giorni la notizia che due minorenni con accesso al Dark Web abbiano partecipato dentro a vere e proprie stanze dell’orrore alla tortura di bambini e bambine che suggerivano agli aguzzini la sevizia da compiere ai loro danni. È stato scoperto che i due giovani, tramite una chat chiamata Shoah Party, si scambiavano foto pedopornografiche e inneggiavano al nazismo. La domanda allora sorge spontanea: da dov’è scaturito questo loro piacere di infliggere violenza? E, soprattutto, la cattiveria è una disposizione innata?
Per rispondere a questi interrogativi, come prima cosa, viene in mente il capolavoro cinematografico di Pier Paolo Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma, un film che risulta difficile e angosciante perfino nel 2020. Censurata più volte, la pellicola è la trascrizione dell’opera del marchese De Sade, non lascia niente all’immaginazione e mostra tutto in una continua e disumana mortificazione dei corpi, caratterizzandosi così come una storia sull’origine della violenza. La vicenda è quella dei quattro signori di Sodoma, che si rinchiusero in una villa per consumare ogni genere di crudeltà psicologica e fisica nei confronti di adolescenti, la cui selezione era avvenuta durante un rastrellamento tra famiglie antifasciste.
Per l’occasione vennero messe in scena azioni moralmente inaccettabili, che profanavano l’individuo con diversi giochi di potere. Più le vittime soffrivano, infatti, più i quattro protagonisti infierivano con un sadismo che dava loro un perpetuo piacere, probabilmente nel tentativo di descrivere un’Italia sfigurata dalla sottomissione al potere, che si nutre della mediocrità e della presunta normalità scavando un solco tra chi è vittima e chi è carnefice, con la sopraffazione percepita come un’asfissiante manipolazione. Non per niente la crudezza delle immagini rappresenta una denuncia al sistema-fascismo del potere e una protesta contro la struttura dei valori imposti da una società consumistica che era già schiacciante 45 anni fa. Chissà che cosa direbbe Pasolini del mondo contemporaneo, quindi, se già nel 1975 lo considerava uno sfacelo.
Tornando a noi, due studi sono passati alla storia per il loro tentativo di spiegare cosa succede all’essere umano, se viene messo nelle condizioni di comandare. Il primo è stato l’esperimento di psicologia sociale di Milgram* del 1961, il cui obiettivo era studiare il comportamento di alcuni soggetti ai quali un’autorità ordinava di compiere azioni in conflitto con i loro valori etici e morali. Lo studio era nato per la necessità di dare una definizione alla crudeltà dei campi di sterminio e consisteva nel dare delle scosse (non reali, ma credute tali da chi partecipava all’esperimento) di entità sempre maggiore e su ordine di uno scienziato a delle persone collocate in un’altra stanza, nel caso in cui queste avessero risposto in modo errato a dei test mnemonici.
Il 65% di chi era presente somministrò su insistenza dell’autorità la scossa di entità massima, considerata letale, e il 100% di loro somministrò la scossa di 300 Volt, considerata meno intensa ma comunque molto dolorosa. Quasi chiunque, previa rassicurazione del fatto che l’intera responsabilità etica sarebbe stata a carico dello sperimentatore, portò così a termine l’esperimento. Milgram ne concluse che fosse da escludere la possibilità di fidarsi solo della natura umana per evitare dei comportamenti brutali: i soggetti coinvolti, infatti, non si erano fermati quando erano stati istigati da un’autorità, motivo per cui solo un numero limitato di persone era rimasto in possesso delle risorse indispensabili per resistere a un’immorale deriva autoritaria.
Il secondo studio sull’argomento, invece, è del professor Philip Zimbardo ed è noto come l’esperimento della prigione di Stanford. In questo caso, alla presenza di due gruppi di persone volontarie con abbigliamento distintivo (carcerate e guardie), lo studio ha provato a comprendere in quali situazioni gente non incline alla violenza finisce per compiere delle azioni orribili. In quel caso, chi ricopriva il ruolo della guardia non ha perso tempo a trasformarsi in una persona efferata, mentre chi aveva una camicia a righe, dopo una iniziale rivolta, ha assunto un comportamento di passiva rassegnazione alle vessazioni del primo gruppo: era così tramontata l’idea che il male fosse una prerogativa dei mostri e che, con la sua banalità, non contaminasse indistintamente uomini e donne di ogni sorta.
Proviamo pertanto a rispondere alle domande di partenza con Zimbardo, che ha parlato di effetto Lucifero² per spiegare l’importanza dell’ambiente (fino a poco tempo fa sottovalutato) nel determinare l’aggressività. Per usare le sue parole, «l’effetto Lucifero descrive il momento in cui una persona comune, normale, attraversa per la prima volta il confine tra bene e male per intraprendere un’azione malvagia. Rappresenta una trasformazione del carattere umano che è significativa nelle sue conseguenze. È più probabile che tali trasformazioni avvengano in contesti nuovi, in “situazioni totalizzanti”, in cui le forze situazionali sociali sono sufficientemente potenti per sopraffare o per mettere da parte temporaneamente gli attributi personali di moralità, compassione o senso di giustizia e di correttezza. Il male consiste nell’esercizio del potere di danneggiare gli altri intenzionalmente (a livello psicologico), ferire (a livello fisico) o distruggere (in senso mortale o spirituale)».
Nonostante questo ci aiuti a capire fino a che punto la violenza possa diventare prerogativa di persone insospettabili da un momento all’altro, è d’obbligo chiedersi anche quali valori morali siano stati alla base assimilati da chi finisce per compiere gesti efferati, fermo restando che, la scienza lo dimostra, non c’è niente di più contagioso del male.
* S. Milgram, Obbedienza all’autorità: uno sguardo sperimentale, Einaudi, Torino, 2003.
** P. Zimbardo, L’effetto Lucifero: cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.
Articolo apparso sulla rivista Light Magazine.