Il furto – di Eva Luna Mascolino

Tutto era capitato la prima volta in cui Eva si era cimentata nell’invenzione di una storia la cui protagonista fosse di sesso femminile.

Perché la faccenda risulti più chiara, va specificato che, di solito, a lei non piaceva spiegare, non le piaceva affatto. Non a caso, quasi sempre interrompeva qualunque genere di racconto cominciato con slancio perché, in seguito, arrivava un momento in cui la narrazione non bastava più a sé stessa. Ed Eva avrebbe voluto che fosse così, che non fossero stati necessari paragrafi chiarificatori, in cui fermare il fiume in piena dell’ispirazione e fare lavorare il cervello. Per lei, si trattava di una fatica sterile. Era come lavorare in un mulino a vento costruito nel bel mezzo di un’isola tropicale. Non ne sarebbe venuto fuori niente.

I suoi personaggi erano il risultato di uno strano fantasma che di tanto in tanto le si ingrandiva dentro, un po’ più in basso dello stomaco. La sua scrittura era letteralmente un parto, insomma, oppure una disinfestazione interiore. Non le sembrava, quindi, che avesse senso dilungarsi nel fornire dettagli esplicativi fini a sé stessi. La sua ambizione era quella di descrivere la maniera esatta in cui ogni spettro perfezionava le proprie fattezze, quella di raccontarne la storia senza nessun giudizio di valore. Solo quando ci riusciva era convinta di avere saputo Scrivere.

La volta in cui aveva conosciuto il suo primo fantasma femminile, era stato dunque in dicembre. Stava lavorando ad uno pseudo-romanzo che, probabilmente, non avrebbe mai visto la fine. Si trattava di un’opera ibrida, che voleva sintetizzare alcuni aspetti della drammaturgia, altri della poesia e molti della prosa: al posto dei capitoli era stata creata, perciò, una struttura suddivisa in prologo, atti ed epilogo. Ed Eva aveva intenzione di sancire il passaggio dall’uno all’altro tramite un componimento in versi che sostituisse il coro. Per il resto, si appoggiava su una trama narrativa neppure troppo originale, di cui nel giorno in questione stava curando un passaggio intermedio, di transizione fra il primo e il secondo atto.

Qualcosa, però, aveva bucato improvvisamente la sua attenzione. Un altro fantasma aveva preso a respirare: un po’ meno grande degli altri, con più capelli in testa. Decisamente più affusolato, in alcune parti del corpo perfino più luminoso. Eva non ne aveva mai notati di simili, da quelle parti interiori. Aveva la sensazione che fosse un intruso, uno smarrito. Un clandestino, consapevole o meno della propria posizione.

Sarebbe stato giusto approfittare della situazione e raccontare di lui, anzi, di lei? Sarebbe stato saggio, legittimo, possibile? Eva non aveva fatto in tempo a chiederselo. Aveva dato un’occhiata all’ora e si era resa conto che mancava poco alla mezzanotte. Non avrebbe avuto altri giorni o altre sere disponibili per dedicarsi a quell’attività: l’indomani la aspettava una sfilza di impegni poco riposizionabili, e così anche il giorno successivo, fino ad arrivare probabilmente a quello del suo pensionamento – lontano ancora decenni, per intenderci.

Così, aveva cambiato foglio. Ne aveva davvero appoggiato un altro sopra la scrivania, come se stesse per occuparsi del ritratto di uno sconosciuto dai lineamenti particolarmente difficili da rintracciare. Era rimasta in ascolto per pochi attimi, poi aveva fatto scivolare con sicurezza la penna nera una riga dopo l’altra, davanti a sé.

Stava incontrando il suo fantasma femmina in un quartiere un po’ malfamato della città, la stava sbirciando rubare dalla tasca di una passante. Prima di procedere, troppo curiosa per allontanarsi di lì senza saperne di più, aveva lasciato che il fantasma continuasse a fluttuare vicino al fiume e aveva imboccato come la passante una traversa poco più avanti, sulla sinistra.

Sapere chi fosse le sarebbe potuto tornare utile ai fini di una maggiore comprensione di insieme. Le avrebbe forse, addirittura, fatto evitare qualche lunga descrizione: chi più sa, più sa omettere. Si era stupita, però, di riconoscere sé stessa nel volto della passante che adesso aveva fatto cadere per terra un guanto e si era piegata per raccoglierlo. Cosa ci faceva lei nel mondo della sua immaginazione? Con quale diritto il fantasma l’aveva trascinata fin lì, per poi derubarla?

Eva era senza risposte e, fattore ancora più grave, senza la benché minima idea di cosa il fantasma femmina le avesse sottratto. Aveva perso il controllo della situazione, il senso della storia, perfino la voglia di farla proseguire – o meglio, di concederle un esordio degno di questo nome. Si sentiva invasa da un nemico imprevisto, che aveva messo piede nel suo territorio senza una ragione giustificabile. Se anche si fosse trattato solo di uno scherzo, o di un passatempo innocente, non era affatto di suo gradimento.

Non le rimaneva che andarsene, tornare nel proprio appartamento e dentro la camicia da notte viola, smettendo di dare voce a chi non aveva dimostrato di meritarne una e riprendendo a dedicarsi al suo progetto ibrido, come se nessuna distrazione l’avesse spinta a trascurarla momentaneamente. Una volta riemersa dalla trance di poco prima, tuttavia, sulla scrivania non aveva trovato il materiale a cui stava lavorando. Erano sparite le bozze, sparita la carta. Sparite alcune cartelle salvate sul computer portatile, sparita la penna che quella sera stava impugnando così saldamente. Sparita anche la sua ispirazione, risucchiata da un buco nero diventato invisibile, irrintracciabile, senza coordinate spazio-temporali.

Eva non se l’era presa. Aveva troppo sonno per reagire, per disperarsi, per pensare ad una lavanda gastrica che la liberasse dalla sua salvifica condanna scrittorea. Era sicura del fatto che il proprio pseudo-romanzo non avrebbe fatto ritorno, che non c’era un modo per rimettersi in contatto con tutte le pulsioni grazie a cui, pagina dopo pagina, aveva fabbricato i primi atti, il prologo e parte dell’epilogo: ogni incontro era stato irripetibile, meno incline al bis di quanto lo sarebbe stato Paganini. Il che non la frustrava né costernava: la rattristava soltanto, in maniera pacata e nebulosamente rassegnata. Era troppo stanca per avanzare pretese o per stizzirsi, e troppo poca convinta di avere un futuro da scrittrice per rivendicare diritti.

Soltanto, si era chiesta cosa mai se ne sarebbe potuto fare un fantasma femmina di una storia come quella che così minuziosamente aveva deciso di portarle via.