Mi sono svegliata all’alba, ho baciato Clara e Filippo e adesso sono seduta sul sedile di un aereo chiedendomi che madre sono. Sto andando alla ricerca di una felicità che non sarà mai mia. Sto andando a distruggere il freddo che mi resta dentro.
Il rombo dei motori mi innervosisce o forse è solo l’ansia che mi investe ogni volta che sto per andare da lui. Ogni volta in cui il suo odore mi scuote e mi svuota in questa parentesi temporale che è solo nostra.
Mio marito non ha mai fatto domande, per lui, due volte l’anno per lavoro parto per la Grecia. Da sette anni sono la sua donna a metà, nemmeno la maschera che porto ha un volto.
Vorrei veramente andarci per lavoro, per smettere di mentire, per dare un taglio alla seconda vita che mi porto dietro e dentro, ma non riesco a sbarazzarmene, l’ho incarnata così bene che è normalità che si lega ad una piccola autodistruzione ripetitiva.
Non è colpa mia se resto disarmata davanti a lui tanto da trovarmi il cuore dappertutto. Continuo a volere quell’uomo facendo guerra al “mai più” nella mia testa. É solo colpa sua, del suo avermi detto per anni che ero bellissima e del suo giocare sfrontato tra le mie gambe. Tiene le redini strette al mio collo e prima o poi finirò per strozzarmi. È maledettamente colpa sua. Anche il giorno del mio matrimonio ha voluto essere il mio chiodo fisso.
Ricordo come fosse ora il mio incedere lungo la navata sorretta da mio padre mentre i suoi occhi mi denudavano, si impossessavano di tutto l’amore che avevo. Eppure non mi ha fermata, non ha mai accennato al fatto che non dovessi sposarmi, non ha mai detto che avremmo dovuto essere solo io e lui. Non gli è mai sfuggito un ti amo, non ha avuto il coraggio di prendere tutto di me. Ha afferrato solo un angolo spiegazzato perché, a dir suo, non meritava altro. Per lui io non ero destinata ad una vita di scossoni. Invece per mia debolezza e imprudenza, dentro di me, continua ad impazzire il rumore, imperversa da anni una confusione assordante e amara.
Il giorno in cui mi sposai ero veramente bella, non avevo bisogno che me lo dicesse, ma non perse l’occasione. Il mio vestito era di un rosso violento, feroce e rabbioso, lo spacco faceva intravedere tutta la gamba. L’ho scelto per lui, ne sono consapevole, ho sperato che mi fermasse ad un passo da mio marito, invece lo superai e lui sorrise come dovrebbe fare un migliore amico. L’amore da quel giorno mi pugnalò regolarmente, affondando passionale una lama che mi avrebbe lacerata per sempre.
Era passata la mezzanotte quando venne a cercarmi nella stanza che mi era stata riservata e lì nel bagno di quella camera per l’ennesima volta mise in bilico la mia vita. Piangevo, ero così disperata che pensai di buttarmi dalla finestra così che ci attendessimo altrove, perché non ero pronta a vivere una vita così malfatta. Ero sposata da meno di sette ore e non ero riuscita a cambiare niente. Mi asciugò le lacrime, mi disse che tutto sarebbe andato bene che non dovevo preoccuparmi. Aveva ragione perché poco dopo sparì per sempre. Sì, proprio per sempre. Non aveva smesso di scompormi l’esistenza, voleva farmi morire fino alla fine. Nessuno ad oggi sa dove sia, a parte me e i suoi genitori. Per molto tempo l’abbiamo creduto morto, per un anno l’ho pianto di nascosto ogni giorno, era il mio migliore amico, il mio amante. Era l’amore e basta. All’improvviso prese un aereo e non lasciò tracce fino al giorno in cui ricevetti una misera lettera. Io, tuttora, so solo che vive in Grecia, non so dove precisamente, ci incontriamo ad Atene, ma lui non abita lì. Dice di fare il pescatore, di essere solo e di avere la vita che voleva, quella che si merita, quella in cui ha censurato ogni sentimento. Non credo a nulla di ciò che racconta, ma mi accontento di stare quattro giorni l’anno con lui. Ogni sei mesi mi innamoro perdutamente. Sono come un armadio, all’inizio ordinata, precisa, suddivisa per colore, dopo di lui come fosse passato un intero inverno, rimescolo tutto e ne esco disordinata, ma ricomposta in modo diverso. Azzero tutto ogni volta e ricomincio da capo. Quando torno i primi giorni sono i peggiori perché la delusione si impossessa di ogni singolo muscolo, ma dopo riparto, rinasco e ricomincio a contare i giorni che mi separano dal prossimo viaggio.
Sono all’hotel in cui da sette anni mi vedono arrivare puntuale in primavera e autunno.
Questa volta ho deciso di fargli male, di fargli provare quel colpo al cuore che si merita per tenermi con sé solo il tempo necessario per farmi cadere dal filo sottile sul quale cammino.
Arrotolo con delicatezza la calza per poi farla salire con precisione sulla gamba, una dopo l’altra fino alla coscia a stringermi un po’ con quel loro silicone appiccicoso.
Non ho mai comperato un abito del genere perché a casa sono la tipica madre e moglie inespressiva, ma oggi voglio risposte, tornare con qualcosa in più o in meno. Ho scelto lo stesso colore aggressivo e irruente del giorno del mio matrimonio. Rosso come il sangue delle arterie, rosso come un’emorragia improvvisa e devastante. Si avvolge ad una spalla lasciando l’altra scoperta e scende aderente fino alle caviglie. Dovrà ricordarsi del giorno del mio matrimonio e dovrà fare i conti con la vita che mi sta facendo fare. Sia chiaro, non è che non amo mio marito, è un amore diverso che a spiegarlo mi prenderebbero solo per pazza.
Incerta scendo le scale su dei tacchi troppo alti. Lui è già lì, seduto sulla solita poltrona verde ad aspettarmi nella hall. Devo sedermici accanto perché si accorga di me e distolga lo sguardo dall’inutile rivista che tiene tra le mani. Ha una barba lunga da cui spuntano molti ciuffi bianchi e i capelli raccolti in una coda. I suoi occhi lenti si muovono sulle caviglie, mi esaminano fino a raggiungere il viso, indugiano sui miei occhi spaventati e lucidi.
– Sei bellissima.
– Lo so – rispondo mentre la bocca titubante si tradisce con un sorriso.
– Andiamo – e mi prende per mano facendomi alzare.
L’aria è calda e il mare è piatto. Ho imparato ad odiare l’odore salmastro che mi si appiccica ai capelli, lo stesso che sento quando le mie labbra si appoggiano al suo collo.
Dopo cena camminiamo lungo la riva, spesso in silenzio e non perché non ci sia nulla da dire, ma perché ogni parola di troppo mi farebbe male. Il grigio dei suoi occhi mi sorprende ogni volta, il loro color fumo mi fa girare la testa, mi fa mancare qualsiasi coraggio, ma questa volta ho deciso.
– Dimmi che mi ami – colpisco come un pugile esperto.
– Cosa mi stai chiedendo?
– É chiaro, no?
– Perché sei qui Ada?
– Non lo so, me lo chiedo ogni volta che bacio i miei figli e sparisco per due giorni.
– Se ti fai domande significa che questo non è più il posto per te.
– Ti odio lo sai?
– Anche io mi odio. Mi disprezzo per averti rovinato la vita.
– Allora te ne rendi conto che sono un casino per colpa tua! – urlo furiosa.
– Certo che lo so, ma non so dirti altro, soprattutto non so darti altro.
– Perché sei così? Perché non mi ami almeno la metà di quanto ti amo io?
– Amore? Ada, parli di amore? Come posso non amarti? Io e te siamo una cosa sola da quindici anni!
– Non siamo una cosa sola, io sono sola, ho due figli con un uomo che è fin troppo buono con me, che accetta il mio sparire per giorni e il sentirmi piangere per settimane dopo che rientro da questo amore devastante. Perché non mi vuoi sempre con te, ma pretendi di avermi per sempre?
– Hai capito, io ti voglio per sempre. Chiudiamo il discorso non voglio litigare.
Mi bacia, mi accarezza il braccio e mi stringe la mano. Non c’è soluzione, non c’è rimedio, non c’è via d’uscita. La speranza è dura a morire solo perché sarà lei a soffocarti per prima.
Il mio taxi è arrivato. Lo guardo come fosse la prima volta o l’ultima.
Si morde la bocca nervosamente come se avesse dimenticato di dirmi qualcosa mentre mi allontano di nuovo. Sono in ginocchio aggrappata al sedile e lo vedo sparire.
Rimane un solco nel mio cuore che ha la forma del suo ennesimo abbandono.
Edito nell’antologia “Qualcosa di rosso” Alcheringa Edizioni