Sono avvolto da una sciarpa grigia, lo stesso colore che i miei occhi, con varie sfumature, identificano in tutto ciò che mi sta intorno. Sarà colpa del buio o della pioggia. Sbocciano come fiori qua e là le prime luci del Natale, pronte a ricordarmi che sono solo in una città nuova. Mi piace fermarmi all’improvviso sul marciapiede bagnato, quel luccichio che riflette la freddezza dei lampioni mi dà il giusto grado di malinconia, poi lo sguardo gira su sé stesso e tutto corre veloce, le auto con i loro fanali, le foglie marroni, gli autobus pieni di sconosciuti stretti appesi alle loro sicurezze come stanno fissi alle maniglie, ma la cosa che preferisco di più è la gente a piedi, frettolosa come fosse inseguita dalla propria ombra, pronta a buttarsi dentro il primo pub. É come se ci fosse debolezza nelle persone ed io riesco a sentirla.
I vetri sono appannati, non vedo dentro, non entro mai da nessuna parte se prima non ho potuto dare un’occhiata fugace a ciò che mi aspetta all’interno. Forse dovrei andare a casa e non passare l’ennesima serata tra birre e patatine. Quante notti sto sprecando seduto sullo sgabello di un bar a caso, eppure è quello che voglio essere qui. Lontano da tutto e tutti, via da quello che non amo più, da quella speranza inutile che ogni tanto mi costringevo ad avere. Via da albe insonni e nottate dal cuore furioso. Via, per arrivare a un silenzio auto imposto, che a dir il vero, mi tiene molta compagnia durante tutta la giornata quando chiuso in una stanza a riordinare archivi respiro di vita mia. Spingo con la spalla l’inusuale pesantezza della porta che darà inizio a una serata rumorosa.
C’è più luce del previsto. É impossibile non notare che stanno tutti intorno a un pianoforte mentre cantano una canzone irlandese che io non conosco. Sento pronunciare più volte un nome “Marianne”, ma mi accomodo su una sedia e ordino la mia birra scura.
Battono le mani e la folla si apre lasciando passare una ragazza dai capelli scuri e ricci. Indossa una maglia leggera, insolito qui, ha uno scollo profondo sulla schiena e dei jeans stretti. Si appoggia al bancone al mio fianco e riprendendo fiato ordina la sua birra. Tamburella le dita ricoperte da troppi anelli, il suo petto si gonfia e si sgonfia a intervalli sempre più regolari. Alcuni uomini le si fanno attorno e le chiedono di suonare ancora, ma lei gentilmente dice che per oggi ne ha abbastanza. È in questo momento, un millesimo di secondo che serve a rimpiazzare pensieri, che si volta verso di me e sorride. La musica dalle casse si alza mentre le luci prendono il classico tono da pub. I suoi occhi si voltano al cielo come a dire “non ci posso credere” e senza nessun tipo di presentazione mi chiede se voglio ballare prendendomi la mano. Come posso rifiutare? Sbatto addosso a un’improvvisa speranza che credevo dispersa.
Sono abbracciato a una sconosciuta in mezzo a un locale pieno di gente dove si fatica a muoversi. Tiene gli occhi chiusi, la sua testa inclinata poggia sulla mia spalla e le sue braccia fanno il giro della mia vita e a pesarci, è una metafora bellissima. “So long, Marianne” continua a cantare lo stereo. All’orecchio mi sussurra che lei si chiama Marianne grazie a questa canzone. È assurdo come sembri parlare di noi. “Ti aggrappavi a me come fossi un crocefisso mentre andavamo carponi attraverso il buio”. A pensarci avrebbe parlato di noi per sempre.
Cinque minuti lunghissimi, i cinque minuti più belli della mia vita. É la cosa più romantica, sfrontata e sincera che mi sia mai successa. Qualcun altro prende posto al pianoforte, cori stonati e ubriachi danno il via a un altro mondo. Lei però non si muove, i nostri piedi continuano a ciondolare su un’asse di legno scricchiolante. La sua bocca si appoggia di nuovo al mio orecchio e mi dice che se non mi dispiace, lei rimarrebbe così ancora un po’. La stringo più forte e il suo piccolo corpo aderisce al mio, sento tutta la sua insicurezza, il suo volersi staccare da una realtà che non conosco, cercando di nascondere in modo malato e ossessivo una tristezza che culminerà in lacrime.
Torniamo a sederci e si passa il dorso della mano sulle guance. Sono spaventato da ciò che mi è successo, dall’accelerare inconsueto del mio cuore e dal pezzo enorme che questa ragazza si è voluta prendere in una sera che doveva essere uguale a tante altre. Una donna affamata di aspettative, desiderio, sogno, illusione, fantasia, pronta a fermare la guerra che la insegue, a lasciarsi indietro ossa piene di sangue.
Le nostre mani stringono boccali, “cheers”, i bicchieri si toccano sonoramente in un colpo che sembra un gong d’inizio per qualcosa che oso chiamare amore. La mia mente sta già camminando verso luoghi sbagliati, a volte è come una puttana, esce quando vuole e non rincasa mai. Sono terrorizzato che questo sia uno di quei casi equivocabili.
Infiliamo i cappotti e usciamo nella sera fradicia e intrisa di un profumo che non scorderò mai. Mi dice che se voglio posso accompagnarla a casa. Uno di fianco all’altra ci avviamo. Ad ogni passo, a ogni parola, la spigolosità che caratterizza ogni persona che ha sofferto, si smussa. Non siamo più solo due corpi vicini.
Davanti alla porta di casa sua abbassa la testa timida, non mi aspetto più nulla da questa notte che è già stata troppo. Penso che avrei dovuto avere più coraggio e baciarla mentre camminavamo sotto la pioggia.
Salendo sul gradino più alto i suoi occhi sono alla pari dei miei, li fissa per un secondo e mi bacia. Di nuovo mi sorprende, di nuovo il mio cuore perde l’equilibrio.
Sono passati due anni da quella notte che racchiuse l’impossibile. Sono entrato spesso in quel pub, l’ho vista suonare divertita per poi finire nella morsa delle mie braccia in un angolo sporco su uno sgabello scomodo.
Chissà che aria tira a Dublino adesso, se è la stessa fredda, secca, spavalda e aggressiva di quella notte e chissà se quella scheggia di vita mi basterà.
Pubblicato la prima volta sulla rivista letteraria Reader for Blind
https://www.readerforblind.com/single-post/2017/10/04/Cheers