Guardo il cortile, la faccia premuta sull’intreccio di tubi d’acciaio appena ridipinti di verde che
costituiscono le sbarre a questa finestra.
L’odore di smalto da quattro soldi mi penetra nelle narici ma sa di pulito e mi piace.
Fuori non c’è ancora nessuno. Sguardo e pensieri vengono attratti dalle due aiuole davanti a me.
Piccole isole appena spruzzate di colore che interrompono il nero cupo dell’asfalto che le circonda.
Tra le Agavi sono stati piantati dei fiori, non ne conosco i nomi, hanno colori pastello, alcuni sull’azzurro altri rosa. Sono attesi da un compito improbo. Lottare contro la terra secca e l’arsura di quest’inizio d’estate. Riuscire ad attecchire in fretta per avere una minima possibilità di sopravvivenza, proprio come quei bambini africani mostrati nelle fotografie delle organizzazioni umanitarie. Scheletri dagli occhi spenti e i ventri gonfi la cui speranza di diventare adulti è legata ad aiuti che, per la maggior parte di loro, non arriveranno mai. E forse è meglio così. Tanto da adulti li aspetterebbe una vita di merda fatta di guerra, fame e malattie. Meglio morire subito.
Anche questi fiori hanno il destino segnato, proprio come quei bambini denutriti e malati. Il ragazzo che si occupa degli spazi verdi all’interno del carcere fra due settimane uscirà da qua dentro.
L’amministrazione penitenziaria ci impiegherà almeno un mese per autorizzare lo stesso incarico a qualche altro detenuto e il sole dell’Isola, già a giugno, non perdona deboli germogli ficcati nella terra più per dovere che per piacere. Il ragazzo glielo aveva fatto dire al direttore di mettere solo piante grasse che quelle vivono mesi con una goccia di rugiada e poi sono piante di Sicilia che nella loro terra stanno bene, Ma da Roma avevano fatto arrivare delle piantine fiorite, fuori stagione e fuori luogo solo per “dare colore” e buttare soldi.
Salvo il giardiniere fece spallucce, a lui non gliene è fottuto niente, sta per uscire e ha trapiantato i fiori accompagnando con una bestemmia ogni buco nel terreno.
Lo sguardo va oltre le aiuole. Una striscia d’asfalto che dall’ingresso della porta carraia prende tre direzioni, a destra verso le sale dei colloqui, al centro per il magazzino dove stoccano le mercanzie che ci vengono vendute allo spaccio e verso sinistra. Quella di sinistra gira intorno al braccio dove sono rinchiuso io per arrivare agli uffici della matricola e ai settori dove sono detenuti gli altri carcerati. Questo non è un carcere di massima sicurezza ma sempre in Sicilia siamo e i detenuti vengono suddivisi secondo la loro “specie”. Anzi specie e genere, proprio come gli animali.
Qui dentro le specie sono due: i “comuni” e i “protetti”. I protetti sono quelli che, per un motivo o per un altro l’amministrazione ritiene di dovere “proteggere” dagli altri detenuti. Io sono tra questi. Già, in un certo senso siamo addirittura schifati da assassini, mafiosi, delinquenti abituali ed ergastolani, grosso modo apparteniamo a tre generi diversi, quelli che hanno commessi reati di natura sessuale, gli ex poliziotti o militari e i “comuni” che hanno subito minacce da altri dello stesso genere questi però li schifiamo pure noi, sono spie delle guardie e per avere qualche
beneficio sono pronti a mettertelo in quel posto.
Tra i comuni invece i generi sono altri. Il primo scalino di questa scala evolutiva del crimine è costituita dai cosi detti scassapagghiari, in altre parti d’Italia li chiamerebbero rubagalline.
Delinquenti da poco, ladruncoli, truffatori, ominicchi senza senso, gente che passa più tempo dentro che fuori. Il secondo è formato dai mafiosi. Loro non vengono suddivisi in base alla pericolosità o al reato commesso, bensì in relazione alla famiglia d’appartenenza. Ogni sezione, una famiglia.
Come ho già detto io appartengo ai protetti, ma il genere non ve lo voglio dire, non è importante.
Non è che essere di questa specie ci dia vantaggi rispetto agli altri, le limitazioni sono le stesse, il mangiare è lo stesso le regole pure, anche le discussioni che abbiamo sono della stessa natura.
Siamo solo separati dagli altri. Due mondi sotto lo stesso cielo.
Già, le discussioni, qui dentro è anche troppo facile litigare. Non è che se uno ti sta sul cazzo puoi evitare di vederlo, qua siamo e basta una scintilla, uno sguardo, una battuta che arriva nel momento sbagliato. Pentole a pressione pronte a esplodere alla prima sollecitazione, forse è così facile proprio perché la cosa più importante da non fare è per l’appunto: litigare. Se una guardia ci fa rapporto per una discussione dove si alza la voce o peggio per una rissa la punizione non è solo andare in isolamento, ma, soprattutto, perdere lo sconto di pena previsto per la buona condotta.
Basta un rapporto disciplinare in sei mesi e mandiamo a fare in culo quarantacinque giorni in meno di detenzione, capite, un mese e mezzo in meno rinchiusi.
La mia mente ha divagato abbastanza, in fondo a voi di queste cose non ve ne frega una beata minchia. Io sono in questa stanza già da cinque minuti con il viso appoggiato all’inferriata e le braccia che sporgono all’esterno per cercare di raccogliere con la pelle qualche refolo d’aria più fresca. Le stanzette per i colloqui in questo Istituto sono piccole. Ci sono tre tavoli e tre sedie per ogni tavolo, e un ventilatore a piantana che a un metro e mezzo da terra cerca di smuovere l’afa stagnante che ammorba questi quattro metri per tre. Oggi con me in questa stanzetta c’è solo
Filippo, ha trent’anni come me, non so perché sia qui, non so quanto abbia scontato e non so quando uscirà, sono cose che nessuno di noi chiede all’altro, una sorta di pudore, più che di riservatezza, una di quelle regole non scritte come ce ne sono tante tra noi detenute molte più di quelle che formano il regolamento imposto dalle guardie.
Sto aspettando che si apra quella piccola porta metallica sul muro perimetrale del carcere, una porticina posta al fianco del grande cancello scorrevole dal quale passano gli automezzi.
Una porticina verde, dalla quale può passare una persona per volta. Oggi come avrete capito è giorno di colloqui, in tre ondate da quell’angusto accesso, entreranno genitori, fratelli, mogli, figli zii, tutti i parenti ai quali è stata concessa l’autorizzazione.
Io aspetto mia mamma.
Da quando sono qui non è mancata a un solo colloquio. In estate col sole che infuoca ogni angolo di questa collina senza ombra o d’inverno con la nebbia e la pioggia che inondano la terra portandosene via sempre un po’, lei è sempre apparsa da quella porta. Io so che niente e nessuno l’avrebbe potuta fermare.
È stata ed è la mia forza.
Ancora non si apre, ancora quella cazzo di porta non si apre. Oggi sarà l’ultimo colloquio, Fra tre giorni uscirò anch’io da qua dentro, per sempre. Non mi illudo, qualcosa mi resterà appiccicato addosso di questi quattro lunghi, interminabili anni. Una parte di questa vita è penetrata in me e ora fa parte integrante delle mie cellule.
Non parlo dei tatuaggi impressi sulla mia pelle con l’inchiostro delle penne a sfera che mi sono fatto fare per ricordarmi chi amo e cosa amo, ma dell’alienante monotonia di giornate sempre uguali, dell’assenza di silenzi nei quali potermi rinchiudere per poter pensare, della mancanza di libertà e della sua consapevolezza. Libero di stare solo o in compagnia, di parlare o di tacere, di mangiare o dormire o leggere, di guardare dalla finestra o pisciare contro il muro. Libero di scegliere cosa fare, quando, come e se farlo. Sì è questo quello che più di ogni altra cosa uccide l’anima e annienta la speranza e la voglia di sognare un futuro. È una lotta quotidiana che fai con te
stesso per non farti sopraffare e mandare tutto a fare in culo, tagliarsi le vene e aspettare nel buio della notte di morire in una cella.
Io questa lotta l’ho vinta, perché il mio futuro lo vedo, fra tre giorni al di la di quelle mura alte mille metri.
Sarà dura dopo tutto questo tempo trascorso rinchiuso. Riabituarsi alla libertà alla voglia di vivere, riallenare il cervello a fare progetti a programmare un semplice “Cosa farò domani?” Per chi è fuori la vita a volte diventa noiosa, banale. Lavoro: una fidanzata, la partita di calcetto, gli amici, “stasera esco con Antonio o con gli amici del bar?” Cazzo, fra tre giorni potrò tornare anch’io ad avere questi dubbi.
Beh forse non uscirò più né con Antonio né con gli amici del bar. Credo che nessuno di loro mi consideri più suo amico. Da quando mi sono costituito sono spariti tutti. Neppure un cane è passato da mia madre a dirle di portarmi i saluti, ad assicurarle che ci sarebbe stato il giorno che sarei uscito. No scusate ora che ci penso ho detto una bugia, all’inizio della storia un paio di amici l’hanno fatto ma dopo qualche settimana è rimasto il deserto.
Già sono spariti tutti, anche la sola altra persona che oltre a mia madre amo con tutto il cuore.
Oddio ora che mi ci è andata la mente, sento forte il dolore che mi provoca non sentirla vicino.
Che indefinibile tormento pensare che mi stia odiando, che non voglia più vedermi. Temere di non poter più trovare i suoi occhi e sentire il suo sorriso è straziante. Le ho scritto, ho provato a spiegarle, senza giustificarmi, senza chiederle comprensione ma pregandola di ascoltarmi, di non dimenticarsi chi sono davvero. Non mi ha mai risposto, io però non voglio darmi per vinto neppure con lei, non voglio perdere la speranza. È sempre nei miei pensieri, nel mio cuore per lei darei la vita anche se decidesse di non rivolgermi più la parola. Mia madre non mi parla spesso di lei, quando capita, mi dice di darle tempo, a volte vorrebbe farmi capire che mi vuole ancora bene. Io le voglio credere, le devo credere.
Mia madre invece… mia madre non ha smesso un giorno di amarmi. Neppure quella sera in cui le confessai la mia colpa. Le crollo il mondo addosso e ancora chissà quanto tempo dovrà passare prima che riesca a scrollarsi dalle spalle tutte le macerie di quella sera… se mai ci riuscirà.
Ci aiuteremo a vicenda, il cuore di madre ha saputo leggermi nel profondo e grazie alla sua comprensione ho capito quello che avrei dovuto fare, lo dovevo a lei e a me stesso.
È un percorso duro e straziante scavare a fondo nel mio passato, in drammi e verità che per troppo tempo ho tenuto nascosti a me stesso. Hanno fatto tane profonde nelle quali si sentono al sicuro. Non è facile trovarli e soprattutto accettarli ma è un’altra sfida che sto vincendo.
Ancora quella maledetta porta è serrata, il sole che ci sbatte contro la rende color smeraldo vorrei dire, bella, ma qui non c’è niente di bello. Perché questo ritardo? Che cazzo sta succedendo, non ce la faccio più. Il riflesso del sole sparisce dai miei occhi, la porta si è aperta, per prima esce una guardia con la sua camicia celeste e i pantaloni blu della divisa, poi un lento corteo di persone, la rappresentanza più autentica della specie umana, Uomini, donne, bambini, l’età varia da infanti in braccio alle madri ad anziani che avanzano a fatica sorreggendosi al proprio bastone o al braccio di qualche parente, persone a capo chino per una vergogna inconfessabile, altre che ridono tra loro come se partecipassero a una scampagnata, altre ancora apatiche per l’abitudine a quelle visite.
Per ultima, come sempre c’è lei, mia madre. È la più bella di tutte, la più elegante. Seria, lo sguardo fiero, si volta verso le finestre delle salette dei colloqui e mi vede, anche se ci separano un centinaio di metri i nostri occhi affondano gli uni negli altri, Ciascuno si inabissa nel cuore, nell’animo, nel cervello dell’altro scandagliandolo, leggendone paure, speranze, segreti. Il nostro colloquio lo abbiamo già fatto, sono bastati alcuni secondi.
L’ora che passeremo assieme potremo trascorrerla a parlare di amenità oppure rimanere in silenzio, perché tanto ci siamo già detti tutto.
Le faccio un cenno di saluto, lei risponde con la mano all’altezza del petto, discreta, lei è così.
Ora guarda davanti a se ed io vado ad aspettarla davanti al tavolino. Due minuti, la porta della piccola stanza si apre e lei entra, i nostri sorrisi sono appena accennati, ma la gioia nel vederci è inesprimibile. Tra tre giorni ci sarà lei ad attendermi fuori a quel cancello e come già fece quando nacqui mi guiderà ancora nella vita che andrò ad affrontare.
E tutto sarà più facile.